UNTITLED – SELECTED WORKS 2022/23
10.03.2023 – 02.04.2023
MARCO ROSSI
LABORATORIO 31 ART GALLERY
VIA BROSETA, 19 BERGAMO
DALLA SUPERFICIE - DI ALESSANDRO GRIPPA Non il nucleo ma la superficie: è questo il primo conoscere, e riconoscere, nel lavoro di Rossi qualcosa di noi, di anche nostro. Una sfocatura, scivolare; spazio e limite dello spazio. Dalla superficie riconosciamo l’arte, i ricordi poi distraggono la pratica: che sia il disegno, la calligrafia o persino lo sguardo di noi che non creiamo ma assistiamo, nell’inseguire il segno di un’immagine la memoria scarta. Ritorniamo così frastornati, da diverse direzioni; ognuno dalla propria in verità, per ritrovarci qui, adesso. Osservo le opere che compongono “Untitled — Selected Works 2022-2023”. E mi pare che in questa volontà di fare ci sia un’infanzia, senza nostalgia, vista crescere senza accudimento ma con cura; con una foga adombrata, di orizzonte e compimento. Una superficie non (solo) increspata, il cono spurio di uno sguardo entro cui le cose accorrono e si avverano e si avvertono nella loro stasi immortalate, nella frenesia poi di un qualunque gesto, la pazienza infine della loro corruzione. I soggetti: figure umane, bestiali, strumenti, arredi. Soggetti a torsioni, pose, presi in una luce vivida, granitica. Corpi che chiedono di essere nudi o abbigliati, ma senza più rispondere all’imperativo di un sesso, di una soglia. E segni grafici che simulano voce, o pensiero; su di una superficie spesso già di per sé significante: di taccuini, agende, di almanacchi, fogli misti, sovrapposizioni scarti e ibridi. Infanzia, si badi bene; non casualità o incidenti. L’immagine dei corpi come prima conoscenza dello stare nel mondo, dentro la misura di un corpo. Il diario torna spesso. Il diario è ciò che concorre ai giorni, l’impronta che il tempo lascia dove ci batte. Ma in Rossi non c’è la storia di un individuo disciolta in una auto-narrazione agrodolce e compiaciuta. Piuttosto la cronaca rivelata, espulsa, spergiurata e imprecata, questo scorrere osceno del tempo e noi con lui, e l’artista immerso in esso, sommerso dalla massa delle immagini. Il punto di partenza è il segno, che è già un traguardo: un arrivo della memoria nel cono di ricezione della superficie. Non sappiamo cosa muova l’artista verso la frenesia del suo lavoro: una forza netta e limpida, come un’acqua ritornata ferma dopo la grande onda. A malapena sappiamo dire di noi come spettatori di fronte a questa vigorosa messa in scena. Un processo di riqualificazione dell’immaginario, ad ogni modo; che descrive o non descrive nulla. E i corpi ritornati ombre, profili, immediatezza. Nessuna mediazione, per l’appunto. Non verità, ma la forza disinibita dell’infanzia. Un grido, il luogo lasciato vuoto da quel grido. L’accorrere poi per sincerarsi dell’evento. La scelta dei diversi materiali e supporti e medium sembra il grande sforzo di fermare qualcosa, e di rivelarlo, dove meno lo si aspetta. Una quotidianità accesa in lampi, ma non sacralizzata; piuttosto il tentativo funambolico di lambire i bordi dell’intimo, del banale, dell’usuale, non per amore di un riscatto ma per furia, per voracità di mira. Cosa ci vuole suggerire l’artista? Forse che è esistito, che deve esistere un sollievo dalla decorazione, una distanza dai colori. Che vero è il lapsus che fa più vere le certezze nel contraddirle. Che possiamo, dobbiamo sostare dove pulsa la sinfonia dei frantumi, delicatamente e vertiginosamente fraterna. Sembra invitarci a questo Rossi; qui, adesso. E noi non possiamo che assecondare, cedere.
